Cronaca di un quadro + bicicletta

Sono davanti al quadro. Pianto tutto! Mi vesto da ciclista e faccio un giro nel Chianti, verso Greve, in questo settembre ancora estivo. Ma forse basta rinforzare quel celeste a destra, o chissà… schiarirlo, ma è più difficile, l’acquerello una volta asciutto non si schiarisce mai. Provo a rinforzarlo. Non sono sicuro di avere migliorato qualcosa. Mi trovo al punto di prima. Sono giorni e giorni che mi sembra di essere al punto di prima. Racchiuderò quella zona celeste in un riquadro geometrico con gli angoli staccati… Non capisco come ho potuto allontanarmi tanto dall’idea iniziale. Mi succede sempre così. Eppure nel piccolo acquarello/bozzetto torna tutto. La bicicletta da corsa è dietro al quadro, appoggiata alla parete: una scultura perfetta, esile, leggera e forte. Mi basterebbe gonfiare i tubolari e andare fuori per non sentirmi addosso questo tormento che provo di fronte alla tela. Forse se ci passassi una mano di tè i colori apparirebbero più caldi, meno contrastati… dopo potrei ricevere dal quadro qualche altro suggerimento per continuare. È quasi finito, ma manca quell’invenzione che a volte scaturisce da uno sbaglio, da un’imperfezione, che dà lo scatto a tutta l’opera. Guardo ancora l’acquarello/bozzetto ormai troppo diverso.

Qui c’è una luce tra il rosa e l’arancio che mi affascina, un tono antico che sa di nuovo, di fresco. Nel quadro questo manca. Penso alla strada che costeggia il golf dell’Ugolino, è uno dei punti più belli del Chianti e quindi del mondo. Potrei continuare a dipingere questo pomeriggio, ma la luce pomeridiana, proveniente da ovest, è meno cruda, meno spietata e per questo è più ingannevole. Quante volte la sera un quadro mi è sembrato bello e la mattina dopo non più. Quella striscia rosata là, in quel punto, però… mica male! No basta! Tolgo con l’acqua calda tutta la leggera carta giapponese incollata sulla tela. È una distruzione. Mi ritrovo con quadro macchiato e martoriato. Ricomincio tutto daccapo. Incollo quattro pezzi di carta trasparente a coprire tutta la superficie in modo perciò che due si sovrappongano appena e gli altri due leggermente staccati lascino una linea vuota al centro. Il lavoro tecnico, quello prettamente artigianale, mi rilassa, non penso a niente, lo faccio e basta, è solo una preparazione per arrivare al “dopo”. Il “dopo” è il mistero, l’incognita, può succedere di tutto: capolavoro e fallimento corrono sullo stesso filo.
Adesso sto dipingendo accanitamente e in maniera piuttosto rapida con un pennello piccolo e morbido. Sto macchiando tutto con quel rosa-arancio.

Lo passo su tutto: sui verdi, sui celesti, sui rosa, sui bianchi… e tutto si trasforma in una strana tonalità quasi sonora, e via via che macchio la tela mi appaiono altri punti vuoti che attendono quello stesso colore. È una continua variazione monocroma. Il concerto di Tartini in mi minore mi accompagna in questa sorta di esaltazione. Mi domando come fanno le persone che non dipingono a sopravvivere. Adesso lo spazio è vivo, luminoso, ora c’è qualcosa di molto intenso nel quadro. Devo attendere che asciughi, poi mi affiderò alla matita colorata. Stavolta ce la farò. La composizione è ormai ridotta ad alcune ombre leggere, dovrò rinforzare quella idea di geometria presente sin dall’inizio… poi, per completarlo, ricorrerò al mio personale bagaglio dei “vizi” d’artista: le linee sfumate, i tratteggi, la scrittura illeggibile, i segni colorati, i punti di luce.

Ora la tela mi rassicura, ci sorridiamo. Dovrò guardarla a lungo, dovrò immedesimarmi a lungo per arrivare al termine… quella bicicletta dovrei proprio pulirla, quando luccica è più bella.

Settembre 1985, Firenze
Il testo autobiografico viene pubblicato sul foglio “Creativa”, n. 8, col titolo “Cronaca di un quadro + bicicletta”

N. 1. Linee e grafia che diventa oggetto, 1962

 

N. 1

Il mio primo quadro si chiama N. 1, è del luglio-agosto 1962. In basso a destra c’è una scritta a pastello: “Una grafia che diventa oggetto”. Ora è di Achille Pace, perché facevamo sempre scambi di quadri fra amici. A me ricorda una pennellata di un maestro giapponese sopra una carta di riso in un’opera Zen, per quella capacità che hanno i giapponesi di cogliere con ineffabile semplicità l’eleganza della linea.

Un quadro per volta

Dipingo quotidianamente, un quadro per volta. Ciascuno mi richiede un’attenzione esclusiva. La fattura è di per sé veloce, questione di pochi giorni: anche perché se non è così manca ogni freschezza e la pittura perde vitalità. Ciò che invece impone un tempo estenuante è la gestazione: capire se e come inserire quella linea, dove caricare il tono o passare un’altra velatura. L’aggiunta di un segno può risolvere il quadro, altre volte può demolirlo e se è così bisogna riformulare l’intera composizione.

Rosa e celeste nello spazio, 1994, cm 77x56, carta

Rosa e celeste nello spazio, 1994, cm 77×56, carta

Non è un uomo

Mi capita talvolta di pensare che, se volessi, sarei in grado di fare un quadro figurativo, ma in verità non potrebbe mai accadere perché è contrario al mio modo di essere, in qualche modo è contrario anche alla mia etica. Una volta, mio malgrado, in un dipinto è apparsa da una macchia la forma di un uomo con un braccio alzato, una specie di fantasma. Ho cercato di nasconderlo come potevo sulla tela e comunque ho intitolato l’opera Non è un uomo.

Leggerissima e insieme forte

In un foglio pubblicato periodicamente dall’Accademia di Belle Arti nella primavera dell’anno passato, presentavo una lezione con diapositive e venivo a parlare ai miei studenti de La leggerezza in pittura, ispirandomi a quel testo straordinario di Calvino con cui iniziano Le lezioni americane.
Volevo porgere loro il valore di qualcosa che non nasce facilmente dalle prove di un giovane, che per sua natura cerca sempre un forte impatto percettivo, come l’esperienza di insegnante mi ha dimostrato in tanti anni.
Il giovane ha bisogno di aggredire la tela, imporsi, mostrare la propria personalità in modo inconfutabile. Il giovane è spesso portato all’accumulazione, alla somma, piuttosto che alla sottrazione. Invece il mondo della leggerezza si adatta ad una osservazione più intima, più rarefatta della realtà.
Mi piace parlare ai miei studenti di leggerezza e pesantezza, non di forza e debolezza, che mettono in gioco dei valori morali, estranei alle ragioni della pittura.
Una pittura può essere leggerissima e insieme forte.

Il mosaico

L’impegno per la realizzazione di un grande mosaico (2 metri di altezza per 12 di lunghezza) nella metropolitana di Roma, era interessante e il cimento totalmente nuovo per me. Nel giorno dell’inaugurazione mi ricordo che la luce creava un baluginìo mobile sulle tessere, rendendo tangibile quell’effetto particolare che ho sempre cercato di ottenere indirettamente. E poi c’era la bella opportunità di vedere dilatato nella dimensione monumentale l’effetto delle mie geometrie astratte, che sembravano in certo modo ancora più astratte.

La carta

La carta bisogna amarla. Bisogna amarla per capirla, altrimenti è meglio usare altri supporti. La carta porta con sé molte sorprese. Non è solo questione di grana grossa o fine, liscia o ruvida, ma è soprattutto la sua capacità di risposta all’acquerello, all’inchiostro, alla matita, al pastello. La sua trama si evidenzia attraverso la stesura del colore. Scegliere il tipo di carta giusta significa avvicinarsi al risultato desiderato. È fragile, la carta, va lavorata in trasparenza e delicatamente… la carta è femmina.

Non è un uomo, 2003

 

A lento consumo

I colori dei miei quadri sono molto leggeri, al limite della visibilità. Questa credo che non sia stata una vera e propria scelta, ma una conseguenza. A un certo punto mi ero disamorato dei colori belli, forti, pregnanti, saturi: quello che mi interessava non era il colore, ma la luminosità della tela sottostante. Se, ad esempio, tracciavo dei segni con una matita rossa, ciò che più mi interessava era sempre la levità della tela, la trasparenza del bianco che ne usciva fuori. Allora cominciavo semmai a cancellare questi segni rossi, perché mi disturbavano, mi davano fastidio, e il rosso diventava piuttosto un rosa pallidissimo. Poi questa “mania”, che inizialmente poteva essere di tipo estetico, intellettuale, è diventata espressione della mia sensibilità: non concepivo più di dover dipingere con i colori a olio o a tempera, che sono coprenti e danno spessore alla pittura, scelsi dunque l’acquarello o la grafite per la loro leggerezza. Questa era la mia natura, alla quale evidentemente non potevo più sottrarmi. Credo che un quadro vada letto come si legge un libro, come si ascolta una musica, passo per passo, centimetro per centimetro: il quadro va vissuto, va visto e rivisto. I miei sono quadri che richiedono un tempo prolungato di osservazione, sono quadri “a lento consumo”.